Basilio Petruzza attualmente studia a Roma per conseguire la laurea magistrale al Dams. Nel 2014 si è laureato al Dams di Messina. Residente a Roma, ma originario della provincia di Messina, nel 2012 ha pubblicato il suo primo romanzo “Frantumi”. Nel 2015, invece, è arrivato “La neve all’alba”, il suo secondo libro. Basilio ha un blog #tutteleparolecheposso (www.basiliopetruzza.it), in cui si occupa delle sue più grandi passioni, tra cui la musica, la televisione e lo spettacolo. Conosciamolo meglio!
Iniziamo subito dal tuo nuovo romanzo, uscito da pochi mesi. Si intitola “La neve all’alba”. Ti va di raccontarcelo?
“La neve all’alba” è la mia faccia di oggi. Di solito, si diventa grandi e ci si inaridisce, si smette di sperare, si diventa disillusi, stanchi, imbruttiti. A me sta succedendo il contrario, sto imparando a sperare, a dare un nome ad ogni singolo dolore, così che possa diventare un’occasione reale di felicità concreta. Non voglio sprecare nulla che mi possa far star bene. Ogni malessere capito, affrontato e guarito è terreno fertile per una serenità piena e cosciente. E persino duratura, aggiungo. “La neve all’alba” affronta una storia ben più drammatica di “Frantumi”, il mio primo romanzo, ma ho deciso di porre l’accento sulla speranza, su quell’istante in cui s’impara a prendere in mano la propria vita per farne la propria occasione. Anzi, non l’ho deciso, ho soltanto assecondato me stesso. “La neve all’alba” racconta di Mauro, un ragazzino che subisce abusi sessuali e psicologici da parte di un prete. La vicenda si snoda nell’arco di parecchi anni, ho voluto raccontare il bambino che era e l’uomo che diventa. E, in mezzo, il suo vissuto, la rabbia, la frustrazione, l’avvilente domanda che l’accompagna da sempre: “è colpa mia?”. Non è un romanzo a tematica sociale, non parlo a nome di chi ha subito una violenza. È la vita di Mauro, la sua innocenza rubata, la sua frustrante posizione di bambino stuprato, di adolescente incompreso e di uomo compromesso. E poi c’è la speranza, che ha un costo. Quale sia, lascio che a scoprirlo sia chi lo leggerà.
Hai citato il tuo primo romanzo, “Frantumi”. Non posso non chiederti di fare un passo indietro e di raccontarcelo. Di cosa parla?
“Frantumi” parla di un’adolescenza che deve imparare a diventare età adulta. Parla di quel momento in cui non sei più un ragazzino, ma non sei ancora nemmeno un uomo. Parla di tempi di mezzo, quei tempi complessi e indefiniti che ognuno vive a suo modo. La protagonista è Laura, una giovane studentessa che non sa prendere in mano la propria vita, le proprie scelte, i propri sentimenti. E lascia che siano gli altri a decidere per lei. Quando s’accorge degli errori che ha commesso, è troppo tardi. È la fotografia di quello che ero qualche anno fa, ero arrabbiato, impulsivo, non sapevo sperare. “Frantumi” è una storia senza speranza di ripresa, una storia a senso unico, che viaggia in direzione di un dolore che può soltanto lacerare, mai farsi maestro per la vita a venire. Questo libro è una delle tappe più importanti della mia vita, scriverlo è stato vitale per me. Mi ha insegnato tanto. Mi ha insegnato a diventare grande. Per questo ho scelto di tatuarlo sulla mia pelle, non per autocelebrarmi, ma per ricordarmi come ho smesso di essere adolescente e come sono diventato un uomo.
E adesso… raccontaci qualcosa di te. Quando hai “sentito” la passione di scrivere?
Non c’è stato un momento esatto in cui io abbia sentito di voler scrivere. Ho iniziato che ero ancora bambino, non so esattamente perché lo facessi, so che mi piaceva. Inventavo storie, le scrivevo su quaderni a righe, ne riempivo due o tre per ogni romanzo. Il primo risale al 2002, avevo undici anni. L’importanza della scrittura, quanto fondamentale sia per me, l’ho capito quando ho scritto “Frantumi”. Lì ho capito che la mia non era soltanto una passione, ma un bisogno. È stato come attraversare a piedi scalzi la mia storia, sono inciampato sulle disarmonie meno evidenti, mi sono visto da punti di vista diversi, ho fatto la guerra con le mie paure, quindi ho smesso di eluderle, ho fatto pace con le mie fragilità, ho imparato a dare un nome ai miei piccoli dolori d’adolescente. Mi sono conosciuto. O, meglio ancora, ho capito l’importanza di conoscersi. Ho capito che l’unica felicità che esista nasce dalla piena conoscenza e consapevolezza di sé. Quando sai chi sei, sai anche in che direzione andare. E il risultato non è il traguardo, ma ogni passo fatto assecondando ognuno la propria personalità, il proprio carattere, la propria verità. Ecco, non sarei quello che sono se non scrivessi. Scrivere mi ha permesso di sapere quello che so di me.
Come nasce un libro? Basta una trama a fare un libro?
Una storia nasce da un’idea, da un’intuizione, da una frase, da un’immagine, da una malinconia. Un libro, invece, nasce da un bisogno, da una mancanza da riempire, da un dolore da conoscere, definire e combattere. I miei libri, sia quelli già pubblicati che quelli che tengo per me, sono nati tutti da un malessere che intuivo d’avere ma che non sapevo ben definire, chiarirmi e vincere. Forse mi mancava il coraggio. Un libro contiene una storia; e una storia è una trama, quindi è fantasia, è talento. Ma non basta una buona trama, un libro è tante altre cose ancora: è lacrime, insoddisfazione, rabbia, frustrazione, dolore. Anche malinconia, sentimenti irrisolti, paure. Tutto questo fa un libro, il racconto che lo costituisce serve “soltanto” a trasformare le proprie sensazioni in una storia.
Hai un luogo dove preferisci scrivere?
Scrivo sempre a casa, sempre alla mia scrivania. Per me diventa come un lavoro: quando inizio, mi ritaglio almeno due ore al giorno da dedicare alla scrittura. E vado avanti così per quattro, cinque mesi. È un po’ come se andassi in ufficio a lavorare, chiudo il mondo fuori dalla mia stanza, stacco il cellulare e internet e mi dedico solo al mio libro.
C’è già “in cantiere” qualche altro progetto?
Sto continuando a promuovere “La neve all’alba”, per far sì che arrivi a più gente possibile. L’ho presentato al Centro e al Sud. In primavera sarà la volta del Nord Italia. E nel frattempo sto lavorando ad un nuovo romanzo, molto diverso sia dal primo che dal secondo che ho pubblicato.
Stavolta voglio raccontare la paura di essere se stessi, la meraviglia di non saper essere altro. È il più bello che abbia scritto, ma lo dico ogni volta di tutti. L’ultimo che ho scritto è sempre il migliore. Forse è giusto che sia così, sarebbe strano se non lo pensassi.
Che consiglio daresti a chi vorrebbe iniziare a scrivere?
Nessuno, se non di farlo. Se scrivere è una necessità, non serve nessun consiglio. Serve ritagliarsi del tempo per assecondare la propria natura e scrivere. Dare dei consigli sulla scrittura, è come dare consigli su come vivere.
Concludiamo così: un bambino ti chiede cosa sia la normalità, cosa gli rispondi?
Gli rispondo che la normalità è un punto di vista. Gli rispondo che, per ognuno di noi, è normale ciò a cui siamo abituati. Che il talento di una vita ben vissuta sta nella capacità di cambiare prospettiva e notare quanto sia piccolo, relativo e trascurabile il nostro punto di vista. Gli rispondo che la “diversità” degli altri non è un limite, ma un’occasione per capire quanto ci sia da imparare, quanto ci sia da sapere. Se sarò padre, insegnerò a mio figlio a non giudicare ciò che non capisce, perché l’ignoranza è un limite che ci impedisce di vedere la bellezza della vita, la sua natura eterogenea, le sue infinite verità. Non giudicare è la migliore forma di rispetto verso gli altri, non etichettare è la migliore forma d’amore verso noi stessi, perché ci permette di imparare e crescere. Sai cosa gli rispondo, se mi chiede cosa sia la normalità? Gli dico che è la libertà di ognuno di noi di essere se stesso. Questo è normale, che ognuno segua la propria natura senza vergognarsene mai.
Alberto Visalli