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“Tutti lo abbiamo chiamato Padre…”

“L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere e, se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo! Io studio questo mistero perché voglio essere un uomo”. (Dostoevskij, Lettera al fratello Michail, 16 agosto 1839)

Sì, è proprio vero: “L’uomo è un mistero”! E un mistero ancor più grande è il sacerdote, un uomo che in Sicilia solitamente viene chiamato “padre”, pur non essendolo biologicamente. Ma il mistero più grande è quello di un uomo al quale, aldilà del ruolo assunto all’interno della società civile ed ecclesiale, e quindi del titolo che gli viene socialmente assegnato, viene tributato coralmente il nome di padre. Questi era p. Spiccia: un mistero! Un mistero proprio perché è riuscito ad entrare nel cuore di ogni uomo che ha conosciuto e a farsi riconoscere non solo come amico, o addirittura fratello, ma come quello che il progetto di Dio ha voluto per lui: tutti lo abbiamo chiamato padre! E lui è stato padre per tutti…
Se è impossibile decifrare un mistero così grande, proviamo almeno a raccontare alcune caratteristiche che illuminano il mistero della vita di Padre Spiccia.

  1. Padre, perché preferì amare più che giudicare

Dal 9 novembre 1969, giorno del suo ingresso a S. Agata, non c’è santagatese che non si sia sentito personalmente amico e figlio spirituale di P. Spiccia. Ritengo che non siano state solamente le sue indubbie doti umane: il suo sorriso spiazzante, la battuta sempre pronta a sdrammatizzare anche le situazioni più incresciose o imbarazzanti, il suo anticonformismo positivo posto a stile di una vita sobria, autentica e coerente col Santo Vangelo. Virtù proprie dell’uomo, queste, ma che non bastano a spiegare il mistero di Spiccia, padre di tutti noi.

Al centro della sua vocazione c’è stata la frase evangelica “Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato tutto il giudizio al Figlio (Gv 5, 22): egli si è sforzato in tutta la sua vita di accogliere questa Parola e di vivere come approssimazione credibile sulla terra della paternità di Dio in cielo.
Dinanzi ad ogni uomo che ha incontrato, che fosse il patriarca di Costantinopoli, il proprio vescovo o “l’ultimo” (secondo le nostre considerazioni) dei suoi parrocchiani, egli si è mostrato padre che non giudica, ma ama, rimandando ogni giudizio al Figlio Gesù, unico giudice dei vivi e dei morti.
Questo non significa che non vi fosse in lui una pressante istanza morale e la capacità di discernimento netto tra ciò che è bene e ciò che è male: memore dell’insegnamento di papa Giovanni XXIII, egli sapeva distinguere l’errante dall’errore, e accogliere ognuno come errante-uomo in cammino verso la santità.
Così, per scardinare il perbenismo tutto ecclesiale della catalogazione tra credenti, praticanti, non praticanti ma credenti, sino a “lontani dalla fede”, si inventò nel tempo una gerarchia di categorie che andavano dal “mascarato” al “sarracino”, sino al livello più raro di “grosso santo”, anzi, “santiuni” che, lungi da ledere la dignità e urtare la suscettibilità dell’interlocutore, suscitava in ognuno la domanda di senso, l’impulso ad essere migliori, il richiamo ai doveri della fede provenienti dal Santo Battesimo. Con una particolarità: che il titolo di “mascarato” non poteva essere negato a nessuno, a conferma del superamento della convinzione farisaica che alcuni fossero giusti, mentre invece tutti siamo peccatori bisognosi di conversione, e quindi di gettare la maschera perbenista, se non di rigettare una falsa fede, ancora non pienamente cristiana (da sarracino) o addirittura sacrilega (da santiuni).

  1. Padre, perché non fece distinzioni e accolse tutti

Padre Antonino SpicciaLo Spirito Santo, suscitatore di carismi e ministeri, diede a p. Spiccia il dono di essere come Lui “padre dei poveri”. Se ogni santagatese era presente nel cuore e nelle preghiere di padre Spiccia, a far breccia nel suo cuore erano soprattutto i poveri. Egli era ben consapevole di questa sua “paternità responsabile” e degli obblighi di amore che aveva nei confronti dei figli con più difficoltà. Ciò si tradusse in progetto pastorale ed in impegno politico.
Dal punto di vista pastorale, dal gennaio 1979, primo in tutta la diocesi, abbracciò il piano pastorale NIP, Nuova Immagine di Parrocchia, condividendone soprattutto l’estensione non ad un gruppo elitario di operatori pastorali bensì a tutta la comunità parrocchiale. Alle nostre pretese “intellettualistiche” e ai linguaggi più o meno forbiti, in ogni ambito (liturgico, pastorale, sociale) egli ricordava sempre che ogni messaggio doveva essere compreso anche dalla “zia Peppa”, altrimenti sarebbe stato un fallimento. Il nuovo piano pastorale, tra alti e bassi, grazie alla caparbietà di padre Spiccia e alla sua capacità di coinvolgimento e di convincimento degli operatori pastorali, riuscì ad ottenere risultati insperati, quali la celebrazione della Settimana di Fraternità, del Sinodo parrocchiale, del Congresso Eucaristico. Il segreto di tutto stava nel far sentire ognuno coinvolto e fattivamente determinante al buon esito del progetto. Ma c’era un di più: la “Nuova Immagine di Parrocchia” poteva inverarsi solamente se si creava una “Nuova Immagine di Parroco”… questo determinò il successo del cammino ventennale.
Questa attenzione ai più deboli divenne ancora più pressante verso alcuni suoi figli prediletti: ricordo ancora le lacrime sincere versate in occasione dell’omicidio di Santino Amata, definito da noi “santino pazzo” per antonomasia, se non fosse che p. Spiccia si mostrava ancor più pazzo di lui, additandocelo a suo migliore amico, follemente innamorato qual era di lui! Ancora, lo sdegno autentico e composto per la morte “accidentale” di un altro uomo “ai margini” della società, ma al centro del suo cuore, Mario Scavo. Questa vicinanza alle fasce popolari si tradusse in un ben preciso impegno politico: la società civile si doveva prendere carico delle persone più deboli o disagiate. Da qui nacque il sogno, sistematicamente predicato a mo’ di appello e di pungolo all’Amministrazione comunale, di una casa di riposo per gli anziani di Sant’Agata. Da qui nacque l’iniziativa “Armadio della fraternità”, con gli operatori Caritas che dovevano essere sempre pronti a ricevere le continue richieste di chi era nel bisogno. Da qui nacquero i pranzi di Natale per gli immigrati, in cui tutti i parrocchiani si scoprivano non padroni, ma servitori di chi non aveva casa, perché “se non servi, a che servi”? Da qui nacque il sostegno e la vicinanza a tutte le aggregazioni anche civili che operavano nel sociale e l’accoglienza fra le mura dei locali parrocchiali della nascente Acis antiracket. Da qui, il suo incessante rapporto di totale dedizione alla Radio Stereo Santagata, per propagare l’annuncio del Vangelo, anche personalmente, nella semplicità ma acutezza dei “Pensieri della Sera”.
Un giorno fu costretto a dare una notizia, inattesa: insieme al cugino padre Casella era stato fatto Monsignore. Non ricordo però di averli mai visti vestiti né della mozzetta né della fascia violacea. Rimase per noi sempre p. Spiccia, anche se alcuni più ossequiosi iniziarono a chiamarlo Monsignore.
In una delle tante passeggiate al porto, dove sul far della sera amava intrattenersi soprattutto coi suoi giovani, gli chiesi: “Ma lei non si è mai vestito da Monsignore”? Lui, ridendo sornione, rispose:
“In verità, sì”. Indicando le barche ormeggiate in balia di un porto eternamente in costruzione, riprese: “Una volta i miei amici pescatori mi chiesero una lettera di raccomandazione per una protesta che volevano fare presso l’Amministrazione regionale a Palermo. Feci di più: mi offrii di accompagnarli, mi vestii di tutto punto e mi presentai: “Sono mons. Antonino Spiccia, insieme ad una rappresentanza di santagatesi”.
Il monsignorato gli valse un’ulteriore promozione gerarchica allorché… fu nominato patriarca!
Fu il Vescovo a pranzo di un convegno ecclesiale a presentarlo così in modo scherzoso, se ricordo bene, al patriarca Bartolomeo di Costantinopoli. Il problema è che l’alto prelato ci credette e chiese informazioni riguardo all’antichità del suo patriarcato… P. Spiccia non si scompose e rispose per le rime: da allora, tutti hanno accolto questo titolo che ben gli si addice, padre Spiccia, “il patriarca di Sant’Agata Militello”.

  1. Padre, perché ha generato figli nel sacerdozio

ok padre spicciaPadre Spiccia soleva dire che il dono più grande per la comunità era la scoperta della vocazione da parte dei suoi figli. Vocazione che, non si stancava mai di ripetere, poteva essere laicale, sacerdotale, religiosa e missionaria.
Il Signore è stato particolarmente generoso nei confronti di padre Spiccia dandogli in vita di conoscere, ancor più che al patriarca Abramo, la grande discendenza di sacerdoti santagatesi che hanno attinto dall’esemplarità della sua vita: Pippo Mammana e Carmelo Prestipino, missionari, e poi Mario Raneri, Mario Giallombardo, Antonio Cipriano, Rino Santoro, Giuseppe di Martino, Enzo Rigamo, Stefano Brancatelli, Benedetto Lupica, Michele Fazio, Enrico Frusteri sdb, Salvatore Chiacchiera, Francesco de Luca. E ancora le tante religiose e laiche che hanno consacrato in modo speciale la loro vita al Signore. Tutti riconosciamo in lui il padre che ci ha seguito e sostenuto nella nostra scelta.
Ricordo come fosse ieri il giorno in cui gli rivelai, primo fra tutti, la mia intenzione di entrare in seminario… Indaffarato come sempre, stava in piedi dietro la sua scrivania. Gli dissi: “Padre Spiccia, si segga che le devo dire una cosa”. Lui continuò imperterrito a rovistare le sue carte, dicendomi senza prestarmi attenzione: “Dimmi”! Insistetti: “Le ho detto di sedersi”. Alzò gli occhi: mi guardò, preoccupato di chissà quale guaio avessi commesso. Si sedette e in silenzio rimase a guardarmi perplesso. Appena saputa la notizia, non accennò ad un sorriso: continuò a guardarmi in silenzio. Rimasi: forse che non era d’accordo con la mia scelta? Si alzò, e sempre senza dire nulla si diresse verso una fila di sedie poste là vicino. Con uno scatto felino si distese su di esse e si mise a sussurrare: “Il mio cuore, il mio cuore”!!! E rideva… quanto rideva… Poi lo costrinsi ad alzarsi, dicendogli mentre ridevo anch’io per quell’inattesa sceneggiata: “Padre Spiccia, la smetta perché poi si sente male davvero”. Lui riprese, facendosi subito serio: “Non te ne ho mai parlato, ma sapessi quanto ci ho pregato! Vedevo la tua inquietudine ma l’ho voluta sempre rispettare: oggi, che sei felice, hai reso anche me l’uomo più felice del mondo”!
Questo era, anzi è padre Spiccia. E queste poche note sono ben poca cosa dinanzi agli innumerevoli aneddoti che ognuno di voi potrebbe aggiungere… Ognuno che, a qualunque età, si riconosce figlio grato a padre Spiccia per tutto quello che ci ha dato.

Un’ultima cosa. Oggi posso dire un segreto che pochi sanno: chiedo scusa a chi si risentirà per quello che sto svelando. Qualche anno prima di dimettersi, a sua insaputa il comitato dell’assegnazione del premio della bontà volle dare a padre Spiccia il premio che egli stesso aveva inventato. Senonché, la curiosità tipica di padre Spiccia, gli fece trovare la busta nei locali della Sagrestia e egli non resistette alla tentazione di aprirla. Appena vide il suo nome, trasalì: non riusciva ad accettare che avessero fatto questa scelta, lui che si era trovato più volte a convincere ad accettare le persone più riservate e riluttanti. Costrinse il comitato a riconvocarsi, e a modificare la scelta indirizzandola non più alla sua persona bensì a tutti e tre i parroci di Sant’Agata. Un atto di vera o di falsa modestia? No: la lucida consapevolezza che il sacerdote è uomo di comunione e agisce in comunione con la sua comunità e coi suoi confratelli.
L’ultima volta che andai a trovarlo a Tindari, gli dissi: “Padre Spiccia, quanto bene Lei ha fatto in tutti questi anni”! Non mi diede tempo di finire la frase e obiettò: “Il bene non va solo fatto, ma anche detto”. Non crediate che sia uno svarione dettato dalla malattia: al contrario, è lo stile di questo mistero cristiano che è padre Spiccia: il bene non va solo fatto, ma deve essere anche detto, diffuso, sottolineando anche il bene che gli altri fanno. E noi oggi confessiamo ai posteri il bene che Tu, servo fedele, hai fatto e imploriamo a Dio di assegnarti il tanto ambito premio della Sua bontà.

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